Dalla lana di pregio ai “non tessuti” low cost. La sfida di Pratrivero ha i caratteri di una trama complessa. Se non impossibile. Nata nel 1963, in un piccolo paese del biellese, Trivero, sulla scia della lunga tradizione di famiglia, quella della lana di Barberis Canonico, punta tutto sui nuovi materiali e nuove tecnologie dei tessuti non tessuti, quei prodotti industriali ottenuti con adesivi e processi termici. In sostanza Pratrivero è uno spin off, anche se allora non si chiamava così, dal lanificio Vitale Berberis Canonico, da dodici generazioni controllato dalla famigllia e oggi guidato dai cugini Alessandro e Francesco. Un marchio ben conosciuto tra le griffe della moda e una delle punte di eccellenza del Made in Italy dei tessuti. Da qui, con una inversione a U rispetto alle tradizioni familiari, è nata la Trivero che si occupa invece di tessuto non tessuto e di fibre tecnologiche ed è oggi guidata dal presidente Paolo Barberi Canonico e dal fratello Sergio.

La società è   talmente abituata ad andare controcorrente che, gli ultimi dieci anni di crisi nera per il distretto, tra società asiatiche agguerrite con produzioni a basso costo, e ci sono i venti di recessione che spazzano via tante delle società tessili del territorio, non solo riesce a crescere ma sbaraglia la concorrenza con una serie di acquisizioni. La prima arriva dagli States, dove compra la Soltex di Greenfield, e l’altra è frutto dell’intesa con il gruppo Radici, una joint venture nei tessuti non tessuti che l’anno scorso è diventata una vera e propria acquisizione.

 

Nel 2002 il fatturato di Pratrivero superava di poco 4 milioni di euro, un terzo realizzati in Italia. Oggi, dopo un decennio di durissima crisi del tessile biellese, il giro d’affari di Pratrivero vale più di 16 milioni, e l’estero viaggia oltre il 90% dei ricavi. Una corsa che non è ancora finita, visto che l’azienda ha in serbo un piano industriale di ulteriore espansione. L’obiettivo è diventare leader globale nei tessuti non tessuti. La società poggia su tre pilastri di sviluppo. Il primo è la collaborazione con Ikea, per la quale fornisce barriere antifiamma utilizzate come rivestimento nei materassi e che vale il 20% dei ricavi. Il secondo segue la via di sviluppo negli Usa grazie all’attività dell’impianto di Greenville (South Carolina), e il terzo punta a conquistare il mercato britannico.

In tutto, ogni anno, l’azienda sforna 50 milioni metri di fibre tessili, venduti in più di 78 paesi. Le applicazioni sono diverse: dai materiali utilizzati d’arredamento (fodera esterna materasso e tende), pelletteria e lalzatura (solette, puntali e contrafforti), pubblicità e promozione (striscioni, sacchetti e copriabiti), tempo libero e viaggi (ombrelloni, sacchi a pelo, sacche per tagliaerba, cuscini per esterno e giocattoli), automotive (rivestimenti per portiere e capotte) e il settore industriale (nastri isolanti, filtri aria e gas). Dice il presidente Paolo Barberis Canonico: “Siamo rimasti gli unici produttori del nostro settore in Europa. Per rimanere in piedi e guadagnare terreno investiamo moltissimo in tecnologia. I nostri stabilimenti sono quasi completamente automatizzati. Per essere competitivi, con una concorrenza asiatica agguerrita sui fronte dei prezzi, il costo del lavoro non può superare il 15% del giro d’affari, perciò le nostre linee devono essere molto performanti e di alta qualità”. Lavorare per un cliente come Ikea è poi “una sfida quotidiana, visto che la multinazionale svedese richiede alta sostenibilità ambientale dei suoi fornitori”. Il mini euro dovrebbe dare un’ulteriore spinta ai conti della società. “I nostri veri competitor sono le tele di cotone, realizzate in India o in Pakistan, prodotti più pregiati ma in genere più cari. Il rafforzamento del dollaro fa sì che questi prodotti diventino ancora più costosi, lasciando quindi campo aperto ai nostri tessuti non tessuti”.

Di Grey